Dodici piani, (più parcheggio), diciassette architetti, quattro dei quali insigniti, negli anni, del Pritzker Prize, il Nobel dell’Architettura. Sono i numeri impressionanti di un sogno che ha preso forma ormai diversi anni fa, ma che continua ad essere un indirizzo imperdibile per gli amanti dell’architettura.

Il sogno è un hotel. Si chiama Puerta America e dal 2005 a Madrid, su Avenida de America, è meta di pellegrinaggio per appassionati e per chi vuole vedere e soprattutto vivere soluzioni abitative e di soggiorno che profumano di genio.

L’elenco dei nomi di chi ha partecipato a realizzare l’hotel è impressionante, quasi un catalogo di quello che è stato, ed è ancora, il meglio dell’architettura contemporanea.

Si va da Oscar Niemeyer, leggendario progettista della città di Brasilia, a cui si deve una scultura che abita l’hotel, a Norman Foster, da Zaha Hadid a Arata Isozaki e Jean Nouvel.

E poi ancora Teresa Sapey, Marc Newson, Christian Liaigre, David Chipperfield, Plasma Studio, Victorio & Lucchino, Ron Arad, Kathryn Findlay e Jason Bruges, Richard Gluckman, Javier Mariscal e Fernando Salas, Arnold Chan, John Pawson. Una vertigine di stili, di innovazione, di provocazione e di genio per chi vive l’hotel, che passa da uno spazio all’altro all’insegna dello stupore, con spazi che diventano un tutto armonico e raccontano le diverse idee di ospitalità.

L’idea

L’hotel vuole essere un inno alla libertà creativa. Non per niente, la facciata, che si deve a Jean Nouvel (che ha progettato anche il dodicesimo e il tredicesimo piano, ndr), si caratterizza per la materializzazione in grandi scritte in lingue diverse della poesia Libertà di Paul Éludard sulle tende da sole colorate che identificano l’hotel.

Il progetto, infatti, ha previsto per ogni designer la possibilità di interpretare il tema dell’ospitalità alberghiera in piena libertà, immaginando e realizzando l’hotel del propri sogni e dei propri bisogni. A tutti è stato assegnato il medesimo spazio, un piano con una hall di ingresso, un corridoio e le stanze, e a tutti è stata lasciata libertà di ispirazione e di utilizzo delle superfici e dei materiali. A tutti è stata assegnata la medesima libertà.

Luce, colore, forma, sostanza

Ogni architetto ha raccontato la sua personale visione di un albergo. Il Puerta America è così diventato, senza mancare di rispetto, il parco giochi del genio, il farsi sostanza dell’immaginario.

Così si va dalle linee avvolgenti di Zaha Hadid all’ispirazione legata alla tradizione giapponese di Arata Isozaki, dalla luce bianca di Kathryn Findlay e Jason Bruges, con le camere che hanno spazi divisi solo da tende, al rosso quasi violento dei muri di Marc Newson (che oltre al sesto piano dell’hotel ha curato anche il Marmo Bar e la Karrara Terrasse, ndr), dai colori inaspettati del parcheggio di Teresa Sapey  al santuario urbano immacolato di Norman Foster. E ancora l’incredibile geode di acciaio di Plasma Studio e i colori festosi, quasi da cartoon di Javier Mariscal e Fernando Salas fino alle pareti che diventano fotografie nelle suite disegnate da Jean Nouvel.

Un museo vivente, vivibile e vissuto dell’architettura è il racconto che trasmette il Puerta America di Madrid, che aggiunge al fascino di essere testimone delle idee di un millennio un servizio di un hotel a cinque stelle.

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