Le visioni sono inevitabilmente molto diverse fra loro, ma gli architetti che si interrogano sul futuro dell’hotellerie hanno tutti in comune un concetto ben chiaro: il superamento delle barriere non solo architettoniche, ma anche psicologiche che rischiano di fare dell’hotel un ‘non luogo’ avulso dal territorio in cui è inserito. La struttura ricettiva perfetta dovrà dunque diventare un contenitore di design, socialità ed esperienze e soprattutto dovrà sapersi rinnovare spesso e velocemente, per essere sempre al passo con le esigenze di target trasversali di clientela.
Eh sì, perché il cliente, al contrario di quanto è avvenuto nel passato, dovrà essere sempre e comunque protagonista assoluto del progetto alberghiero e qualunque visione, per quanto estremizzata e futuristica, non dovrà mai allontanarsi dal concetto fondamentale: quello dell’ospitalità.
“Il concetto di xenìa, tratto essenziale della nostra cultura mediterranea, dev’essere ancora il nostro punto di forza per costruire una visione del futuro di settore – spiega l’architetto Riccardo Emanuele -. Gli spazi, gli ambienti, l’architettura e la sua visione sono una modalità di cristallizzare e dare forma a un’idea. Allora il futuro dell’ospitalità dovrà essere riscritto mettendosi dietro a un tavolo per ascoltare e comprendere che cosa ci fa sempre più umani quando viaggiamo e soggiorniamo altrove. Questo è per noi fare design”.
Due le tipologie di strutture ricettive, secondo l’architetto Samuel Balasso: “Gli ‘accomodation spaces’ e gli ‘hosting spaces’. I primi saranno proiettati a soddisfare le esigenze di comfort e di servizi essenziali per il viaggiatore 5.0, in un contesto in cui la digital transformation potrà costituire un fattore di grande rilevanza. Gli hosting spaces, invece, faranno riferimento all’esperienza più euristica e profonda dei luoghi”.
Luoghi, questi ultimi, di condivisione e attrazione che, secondo l’architetto David Morini, potrebbero diventare “le piazze italiane del futuro. Ciò che creerà valore sarà – aggiunge – l’apertura alla comunità circostante. L’attenzione al contesto architettonico e paesaggistico in cui l’hotel è inserito sarà fondamentale e l’architetto avrà il compito di rileggere in chiave contemporanea i materiali e le metodologie costruttive della zona”.
Il valore dell’esperienza
Il vero servizio su cui si dovrà puntare è, per molti degli architetti, l’esperienza che vive l’ospite. Esperienza che, per l’architetto Anna Gatti, si traduce anche nella possibilità di incontrare persone del territorio. Senza possibilità di relazione l’ospitalità diventa, infatti, un concetto sterile. “L’esperienza dev’essere soprattutto autentica – aggiunge Gatti – e qualitativamente rilevante per poter creare il ricordo duraturo”.
“Io distinguo due piani di innovazione – spiega l’architetto Luca De Bona -: da una parte la necessità di adattare la struttura alle tecnologie contemporanee tramite un’architettura modulabile, dall’altra la necessità di vestirla di tipicità”. Due aspetti che si compenetrano dando vita a un concetto unico: la personalità. “Il concetto di ‘casa lontano da casa’ è ormai superato – spiega l’architetto -. L’ospite ora, quando sceglie una determinata struttura, vuole sentirsi fuori casa ma, al contempo, inserito in un preciso contesto territoriale. D’altro canto, la tecnologia diventerà un aspetto sempre più irrinunciabile: parlo di prodotti hi-tech di grande fruibilità, tool sempre a portata di mano, veri e propri ‘parassiti’ dell’uomo che lo accompagnano ovunque e sempre”.
“È anche bellissimo pensare che la tecnologia sia nascosta – sostiene Morini -, completamente invisibile, ma allo stesso tempo fruibile da tutti gli ospiti senza complicazioni, in modo semplice”.
L’interior design dovrà contribuire a rendere l’hotel il più duttile possibile, “un’entità plasmabile in base alla nostre esigenze – aggiunge De Bona -. Come dimostra il progetto mio e di Dario De Meo presentato a InOut lo scorso anno, NomadHotel, l’albergo del futuro – sottolinea – non potrà più avere una divisione rigida degli spazi, ma dovrà garantire un rimando continuo tra interno ed esterno e tra le varie funzioni, garantendo la socialità ma, al contempo, la possibilità psicologica di sentirsi riparati”.
Il futuro vedrà spazi flessibili anche per l’architetto Vittorio Grassi, che pensa a superfici utilizzate indifferentemente per lavoro, socializzazione ed eventi: “Potranno incorporare spazi più grandi di condivisione – dice -, offrendo aree comuni che favoriscano l’interazione tra gli ospiti: aree lounge, cucine condivise, giardini terrazzi”. Il concetto di flessibilità rientra, per l’architetto, in quello di omogeneità dell’offerta: “Parlo di omogeneità, ma non di omologazione – specifica -, in controtendenza con la grande specializzazione delle strutture che fino a pochi anni fa connotava il settore dell’hospitality. Ora le differenze tra hotel di città, villaggi turistici, beauty farm, resort o dimore storiche si stanno sempre più assottigliando: ambienti flessibili e multifunzionali, attenzione alla sostenibilità, aspetti tecnologici, presenza di spazi di condivisione e cura del design sono e saranno sempre più elementi comuni e imprescindibili”.
Oltre l’hotel fisico
Fin qui l’hotel fisico, ma se ci spingiamo oltre? A questo pensa l’architetto Simone Micheli: “Come sarà l’hotel del futuro? – si chiede – Sarà l’hotel che non c’è, una struttura presente nel metaverso e che potrà essere visitata e fruita in modo virtuale”. Un ambiente allo stesso tempo open air e denso di particolari di interior design, dove la libertà regnerà sovrana: “Non ci sarà forza di gravità – racconta l’architetto -, non ci saranno vincoli di costruzione: l’hotel del futuro sarà l’espressione della visione degli architetti, che da creativi potranno trasformarsi in creatori”. Uno spazio libero sì, ma non per questo gratuito: “Il concetto di esclusività rimarrà, perché la logica del profitto è destinata a restare anche nel metaverso – conclude Micheli -. Si dovrà dunque pagare anche per avere un’esperienza virtuale”.
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