L’architettura non va giudicata, ma compresa, e per comprenderla ci vogliono i giusti strumenti culturali. Strumenti che, se affinati, aiutano a capire anche le varie sfaccettature del bello. Questo il messaggio che gli architetti hanno lanciato alla platea di InOut durante il talk moderato dal direttore Remo Vangelista.
“L’Italia – esordisce Ludovica Serafini – ha creato l’architettura e, fino al 1950, esisteva solo la scuola italiana. Dopo cosa è successo? La caduta di cultura del nostro Paese è un dato di fatto e non ci aiuta a capire che, accanto a un bello oggettivo fatto di proporzioni armoniche, esiste anche una dimensione estetica soggettiva, che non necessariamente piace ai più”.
A ribadire la complessità di analisi e comprensione dell’architettura contemporanea è anche Armando Bruno: “Oggi – spiega – se si deve definire un’architettura si usano aggettivi come etico, sostenibile, inclusivo, per cui si fa fatica a definire un progetto bello. Come l’arte contemporanea ha una difficoltà di lettura, così anche l’architettura”.
“Non esistono più criteri oggettivi per definire il bello in architettura – aggiunge Vittorio Grassi -. Quel che è certo è che l’albergo è una delle cose più difficili da progettare da zero, perché il rischio è di essere ripetitivi. Per me l’essenziale è dar vita a strutture rassicuranti, ma che sappiano suscitare emozioni”.
La nascita di un progetto di ospitalità è, dunque, un processo elaborato, ma fin dove gli architetti si possono spingere, fin dove possono osare? “I margini di libertà ci sono, ma sono approssimativi – sostiene Bruno -. Venticinque anni fa anni ideare un albergo era un lavoro sostanzialmente compilativo, c’erano canoni estetici, materici e dimensionali da rispettare. Adesso non è più così, però nel frattempo i brand si sono moltiplicati e, quindi, anche le richieste dei committenti”.
D’accordo con lui anche Serafini: “I limiti – dice – sono dati dalla committenza, ma quel che conta è che l’architetto abbia buonsenso, eviti di fare cose già fatte e sia una persona curiosa dei materiali”.
Materiali che, se reperiti nel territorio, contribuiscono a creare quel legame della struttura con l’ambiente circostante che tanto sta a cuore agli architetti: “Il radicamento nel territorio è necessario – ribadisce Grassi -, se farlo con i materiali o con altri stratagemmi sta a noi deciderlo”. Non la pensa così Bruno: “Se il rapporto con il territorio si traduce solo in un’estetica folcloristica o di souvenir lascia il tempo che trova – dichiara -. Secondo me il legame con la destinazione non dev’essere mai un’imposizione”.
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