Una matita per amica. Una sola ora al giorno per pensare, disegnare e progettare. In silenzio, per cercare quell’ispirazione che, nella frenesia di tutti i giorni, sfugge.

A volte la intravedi e sei pronto a metterla su carta, ma troppe volte in un attimo svanisce.

L’idea che ogni giorno cerca Vittorio Grassi, architetto milanese che ci accoglie nel suo studio con un pizzico di diffidenza iniziale.

Abituato a parlare e raccontare i suoi progetti si scioglie lentamente in questa intervista con InOut Review, un incontro dove la tecnica rimane per una volta in secondo piano.

Perché ogni tanto è bello raccontare il mestiere e tutti gli aspetti di questo lavoro, con una puntata finale che arriva nell’ufficio personale dove la scoperta si fa curiosa e riporta a galla l’umanità di questo professionista.

Partiamo da quella scintilla che mette in moto il processo creativo?

Sono sempre alla ricerca del progetto che mi rappresenti. Lavoro con grande applicazione perché sono innamorato del mio mestiere. Il lavoro è faticoso, serve ricerca e analisi. Poi tutto arriva, anche la scintilla a volte tarda a mostrarsi. Ma è vicina, basta riconoscerla.

Sino a dove può spingersi l’architetto nel progettare un albergo? Gli spazi di manovra sono ampi?

Dipende dall’albergatore. Molti colleghi si trovano meglio con le grandi catene perché hanno sistemi di lavoro collaudati, ma anche l’hotel singolo può riservare sorprese. Forse con la catena internazionale posso spingermi più avanti con i pensieri, ma in questo caso è il direttore d’albergo il mio interlocutore primario. In questo caso le dinamiche sono più semplici.

Vediamo la dinamica…

Come dicevo con i gruppi alberghieri si applicano standard precisi e tutti hanno le idee molto chiare. Molto più difficile è quando devi operare su strutture più piccole. Si fanno guidare poco e il tempo vola. Anche se in alcuni casi ho trovato imprenditori illuminati e mi sono divertito.

Come si coniuga la bellezza con l’efficienza?

Come dicevo, prima la ricerca e l’analisi sono momenti faticosi. Direi che serve molto saltare da un progetto all’altro  perché si mette in moto la contaminazione tra idee. Ho bisogno però di ritagliarmi sempre un’ora al giorno da solo. Con fogli e matita cerco soluzioni e la bellezza che lei mi chiede. È un momento tutto mio, una piccola parte di giornata indispensabile.

Oggi gli alberghi stanno diventando uno spazio aperto alla comunità. Come si progetta questa nuova piazza urbana?

Vede, solo la definizione piazza urbana mi mette nelle condizioni di immaginare qualcosa di bello. È senza dubbio un aspetto dove c’è ancora molto da fare, ma stiamo assistendo a tante evoluzioni. Mi piace pensare che ci siano spazi che possono utilizzare tutti e non solo i clienti dell’albergo. Un fatto culturale di grande spessore.

Nel 2024 durante un suo intervento al talk di InOut a Rimini sottolineò la necessità di semplificare la complessità. A che punto siamo?

L’albergo è una macchina complessa e, quando devi progettare, sai che vengono coinvolti tanti consulenti, per ogni aspetto. La complessità e la lentezza, se vuole, nascono anche da queste cose. L’architetto pensa a una cosa che affascina e dev’essere capace di trasmettere bellezza. In mezzo a tanta gente e tanti consulenti non è sempre semplice. Per non dire che a volte è complicato. (lo dice ridendo…Ma non vuole raccontare a quale albergo sta pensando n.d.r.)

Come si costruisce un’esperienza e non solo uno spazio all’interno di un hotel? Usa strumenti particolari per fare dialogare architettura ed emozione?

Sono un architetto, non mi occupo di interior design. L’emozione non deve sempre e solo passare da colori e arredo, ma deve seguire spazi e volume. Lo racconto spesso quando tengo lezioni agli studenti: serve ritmica, e l’emozione può arrivare da tante cose e situazioni.

Lei ha lavorato in contesti diversi. Da edifici storici a porti turistici. Come cambia l’approccio progettuale in base a funzione e luogo?

Non dev’essere mai architettura forzata. Io spero che vi sia un file rouge che mi rappresenta. Non credo vi sia molto altro da aggiungere. Amo la leggerezza e sono  attento ai nuovi materiali. Se devo dirla tutta sono sempre alla ricerca del progetto che mi rappresenti.

La parte finale dell’intervista scivola poi su racconti di vita e tour nei suoi uffici. Grassi ha un lato umano spiccato e racconta passeggiando che è “guidato dalla passione”. Dice di avere voglia tutti i giorni di venire in ufficio e confrontarsi con i suoi 25 collaboratori. “Abbiamo molti stranieri in ufficio e ragazzi talentuosi. Quando incontro i candidati cerco negli occhi la voglia di fare e spesso si accomuna al talento”.

Vittorio Grassi ha un animo sportivo, gioca a pickleball e segue il calcio con passione (tifoso del Milan). “Il calcio e le sue dinamiche influenzano il mio lavoro e la gestione dei collaboratori. A volte vorrei essere tanto giocatore e invece devo fare l’allenatore”.

Il giro aziendale deve per forza atterrare nel suo ufficio e l’architetto milanese spiega che la lettura è una sua profonda passione perché l’architettura “come fa il romanzo, deve raccontare una storia. Si è poco abituati al racconto. Tutto è molto frenetico. La storia fa la differenza e devi sempre raccontarla al cliente. Oggi abbiamo tutti perso un po’ la capacità di raccontare. Io ho imparato tantissimo da Renzo Piano lavorando a Genova con lui. Per esempio come gestire l’ufficio, come sapersi comportare dentro e fuori l’azienda. Renzo è talento e istinto allo stato puro”.

Poi, prima di chiudere il racconto, mostra alcuni dei suoi prossimi progetti e un suo capolavoro. Una collezione di giocatori in miniatura per Subbuteo da lui dipinti con numeri, nomi e maglie perfette. È il momento in cui l’architetto Vittorio Grassi lascia uscire tutta la sua passione che arriva da lontano. E non finisce mai.

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